Il commento di Marcello Mancini.
AGIPRESS – Gianni Morandi che spazza il palcoscenico del teatro Ariston è l’immagine iconica del Festival e della nostra società . Ciò che distrugge una certa gioventù bruciata, che reagisce alle contrarietà con gratuita violenza, rimette a posto la generazione del Dopoguerra che ci ha portato alla libertà e alla democrazia attraverso anche la Costituzione, celebrata proprio sul palco della musica italiana un paio d’ore prima. La sintesi di Sanremo è l’alternanza di cose cattive e buone che sono lo specchio del nostro Paese. Forse è per questo che la rassegna canora piace alla gente e per una settimana diventa l’epicentro di tutto e di tutti. Un qualunque sospiro sul palco dell’Ariston, che in un altro momento e in un altro contesto resta semplicemente un sospiro, ignorato dai più, qui diventa invece un urlo, talvolta un concetto, ascoltato dalla platea sconfinata degli italiani. Tanta acqua è passata sotto i ponti da quando nel 1987, Enrico Manca, all’epoca presidente della Rai, definଠPippo Baudo all’apice dl successo, nazionalpopolare. Rendeva bene l’idea, anche se la trasmissione non era il Festival ma Fantastico, il varietà del sabato sera. Sembrava un’offesa (e infatti Pippo Baudo se la prese a male), in effetti sembrò essere un richiamo a fare cose un po’ più impegnate, e invece era proprio l’espressione nel senso gramsciano, che ravvisava l’incapacità degli intellettuali di rappresentare gli interessi e i gusti della gente e quindi in questo modo di farsene da guida. Quindi un’accezione positiva, per dire che quel tipo di spettacolo, di cui Baudo era il principale depositario, sapeva parlare di più e meglio al popolo.
Ora Sanremo è cambiato, passando attraverso tre fasi. La prima è quella delle musica propriamente detta (i tempi di Volare oh oh); la seconda è quella baudiana, che introdusse lo show; la terza è quella che stiamo vivendo da qualche stagione, che ha tirato dentro al Festival i personaggi nel quotidiano politico e sociale (pensiamo all’anno di Gorbaciov ospite di Fabio Fazio), ma soprattutto i temi di disperata attualità , come dimostrano anche in questa edizione il dramma della violenza sulle donne e della emarginazione. Ecco perché Sanremo è il momento dell’anno più seguito e ascoltato da tutti, perché contiene la parte musicale, quella sociale e perfino quella politica. E’ inevitabile che a queste condizioni, si proponga di assolvere anche una funzione educativa. Tutto quello che succede sul palco, rischia di diventare una lezione, nel bene e nel male. Non è quindi tollerabile l’atteggiamento di cantanti come Blanco, rappresentante di una generazione di ventenni da emulare; ma soprattutto non mi è piaciuta l’indulgenza con la quale è stato trattato da Amadeus, dopo che aveva sfasciato il palcoscenico (Baudo non l’avrebbe fatto); mentre la professionale saggezza di Morandi cercava di rimettere a posto le cose, con un gesto che rifletteva molti significati. Non ultimo quello di far capire che l’intervento di pulizia, sia pure simbolico, avrebbe dovuto farlo colui che il danno lo aveva provocato, non un tranquillo ottantenne di successo. Questo sà¬, sarebbe stato una bel momento educativo, altro che le scuse postume.
Molti sono convinti che la sceneggiata di Blanco facesse parte del copione. Sinceramente ha poco importanza, perché se fosse cosi sarebbe anche peggio. Cioè: ricorrere da copione alla violenza gratuita per ottenere ascolti, ignorando quanti giovani assistono al festival e si convincono che se qualcosa non funziona si può essere autorizzati a sfasciare quanto capita a tiro, perfino davanti alle telecamere, è una deriva pericolosa. Un cattivo esempio che proprio non ci manca in un periodo pessimo, e anche in un Festival, in cui la violenza, in modo particolare quella sulle donne, viene denunciata con forza e in ogni forma. I grandi ascolti di Sanremo confermano che questo è lo specchio dell’Italia, gli italiani ci si affezionano con tali sentimenti che, nella classifica delle nostre emozioni, solo una partita di calcio può reggere il confronto. Siamo leggeri o nostalgici? Forse siamo anche noi semplicemente nazionalpopolari. Ma sempre con rispetto. AGIPRESS
di MARCELLO MANCINI