(AGIPRESS) – “Il Medio Oriente è un gioco di specchi riflessi, dove quel che sembra spesso alla fine non è. Qualsiasi movimento, qualsiasi cambiamento di scenario, ha effetti non lineari sulla regione. Prendiamo gli undici giorni di conflitto tra gli israeliani ed il movimento terrorista di Hamas. Se guardiamo la situazione solo dal punto di vista ideologico degli schieramenti in campo, quello israeliano e quello palestinese, sembrerebbero gli ormai consueti attacchi missilistici palestinesi e la altrettanto consueta risposta dell’aviazione israeliana, con un evidente numero di morti civili palestinesi paurosamente superiore rispetto alla controparte israeliana. Un leitmotiv al quale chi vede i TG serali è abituato ad assistere. Eppure c’è qualcosa di più profondo, che coinvolge tutta l’area mediorientale”. E’ questa la premessa di Mirko Giordani, analista fondatore e CEO di Prelia, società che si occupa di rischio politico ed intelligence strategica. Giordani continua cosଠl’analisi.
“Punto primo, gli accordi di Abramo. Il mondo arabo sunnita, cioè i paesi del Golfo, Emirati Arabi Uniti e Bahrain, hanno segnato un accordo di pace e di cooperazione con Israele, sotto l’egida degli Stati Uniti dell’allora presidente Donald Trump. Ora, se le élite dei paesi sunniti in questione non hanno avuto molti problemi a disinteressarsi dei palestinesi, lo stesso non vale per i sunniti, che hanno ancora molto a cuore la questione. Faranno questi dunque pressione per un lento dismembramento degli accordi di Abramo? Punto secondo, il test sulla leadership americana. Il timing della zuffa tra Israeliani e Palestinesi è molto preciso e viene poco dopo i 100 giorni di Joe Biden alla Casa Bianca. Ovviamente nessun presidente americano si sognerebbe mai di abbandonare Israele e, nonostante le frasi di circostanza sul diritto di Israele ad esistere e a difendersi, quel che traspare dalla Casa Bianca è una relativa equidistanza. Per i palestinesi nulla di nuovo, ma per gli israeliani significa tornare allo status quo dell’epoca Obama. Gli sbilanciamenti di Trump a favore di Gerusalemme sono quindi ormai un lontano ricordo. Punto terzo, gli accordi sul nucleare iraniano. Mentre gli israeliani e i palestinesi si combattevano, i negoziati sul nucleare sono andati avanti e sembra ormai sempre più vicina la soluzione per un nuovo JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action). L’unico ostacolo potrebbe essere la vittoria di un candidato oltranzista alle prossime elezioni in Iran, ma questa è un’altra storia. Altro punto molto importante è l’aiuto logistico e finanziario che l’Iran fornisce sia ad Hamas che alla Palestinian Islamic Jihad, una fazione che ha partecipato attivamente agli scontri con Israele. Se infatti il rapporto tra Hamas e Iran è più labile, quello con la Jihad palestinese è di lunga data e desta non poche preoccupazioni nelle sfere militari israeliane. Sebbene Israele abbia incassato una vittoria sul campo, dal punto di vista strategico la situazione sembra capovolgersi. Il pivot americano in Medio Oriente non è più il mondo sunnita ed ebraico, con a capo l’Arabia Saudita ed Israele, ma il mondo sciita. Dunque solo una vittoria della linea oltranzista a Teheran potrà portare l’America ad abbandonare, almeno per ora, ogni velleità di accordo con l’Iran”.