AGIPRESS – ROMA – “Il 30% degli ospedali italiani è stato costruito fra il 1941 e il 1970; il 20% dal 1901 al 1940; il 6% dal 1801 al 1900; il 10% prima del 1800. Per combattere le infezioni ospedaliere abbiamo bisogno di ripensare gli spazi, i medici lavorano in ambienti inadeguati: ci sono colleghi che lavorano in strutture realizzate 800 anni fa”. E’ uno dei dati riferiti da Antonio D’Amore, vicepresidente della Federazione Italiana Aziende Sanitarie e Ospedaliere (Fiaso) e direttore generale dell’Ospedale Cardarelli di Napoli, durante i lavori di uno dei tavoli tematici della seconda edizione dell’Open Meeting dei Grandi Ospedali Italiani, svoltasi a Roma. “Chi lavora nei grandi ospedali è chiamato ogni giorno a vivere le sfide di un presente che richiede competenza e capacità . Gli ospedali sono luoghi pieni di rischi (biologici, radiologici, chimici, fisici) per i pazienti, ma soprattutto per gli operatori -spiega il direttore D’Amore, moderatore del tavolo dedicato a “Adattamento a scenari di impatto rapido e sicuro in un Grande Ospedale”-. La capacità dei nostri operatori di superare questi rischi è frutto della loro competenza e professionalità , nonostante siano spesso chiamati a lavorare in ambienti inadeguati. Ci sono nostri colleghi che devono conciliare competenze e protocolli del presente con mura e spazi pensati per essere illuminati con le candele. Per ammodernare le infrastrutture, è partito il piano straordinario per l’edilizia sanitaria. I fondi sono ancora in fase di erogazione e questo piano è stato istituito con l’art. 20 della legge finanziaria del 1988″.
Il Governo deve rilanciare il Servizio Sanitario Nazionale con risorse e riforme”. CosଠNino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe che aggiunge: “Prima di tutto, però il Governo deve decidere in quale direzione vuole andare. Non è possibile avere una delle spese pubbliche in sanità più basse d’Europa e immaginare di erogare una quantità di prestazioni e servizi sanitari che ci mettono ai primi posti per offerta pubblica, ma solo sulla carta: di fatto metà degli italiani non accede ai livelli essenziali di assistenza. Meglio, allora, un sistema che decide di spostare parzialmente la spesa pubblica sulle strutture private in maniera strutturata piuttosto che una privatizzazione strisciante come sta avvenendo”. “Ci troviamo di fronte ad un gap enorme tra quello che la tecnologia e la ricerca hanno prodotto e la possibilità che tali innovazioni vengano rese accessibili in modo equo a tutti – spiega il presidente della Fondazione Gimbe – Con una spesa sanitaria pro capite che è la metà di quella della Germania certo in Italia non ci potremo permettere tante innovazioni sia farmacologiche che tecnologiche che la ricerca ha messo a disposizione dei pazienti. Ci sono Paesi che mettono la salute al primo posto degli investimenti pubblici, ma in Italia questo messaggio non è passato”. AGIPRESS