Il racconto di Marcello Mancini: chiamava per lanciare i suoi j’accuse. Minacciò di portare a Roma il museo con le sue memorie.
AGIPRESS – FIRENZE – Quando c’era qualcosa che non gli tornava, il maestro chiamava il giornale. Ovviamente La Nazione. Fingeva di ricordarsi il nome del cronista, che invece gli era stato suggerito poco prima dalla segretaria di turno. “Caro…”, era l’immancabile appellativo con il quale cominciava il suo j’accuse. Spesso aspro, sempre sfrontato e senza peli sulla lingua: potevi star sicuro che andava a segno, e a volte bisognava frenarlo per evitare querele. Come successe quella volta, nel 1982, che la Fiorentina perse lo scudetto: in un’intervista alla Nazione dette dei ladri alla Juventus e a Boniperti. Finଠin tribunale. Lui e il capo dello sport, Raffaello Paloscia.
Zeffirelli aveva questo vizio fiorentino: non le mandava a dire dietro. Oggi che viene ricordato perfino con il passaggio aereo delle Frecce tricolori su Palazzo Vecchio, e un francobollo celebrativo, può sembrare inconcepibile, ma è cosà¬. A chi scrive, per via del suo ruolo di cronista svolto per tanti anni, è capitato di essere l’interlocutore privilegiato, scelto per trasmettere il suo messaggio al Palazzo. Che all’epoca, spesso e volentieri, non lo ascoltava anzi, faceva spallucce considerandolo solo un rompiscatole. Se il Maestro era dell’umore giusto, la telefonata alla cronaca della Nazione si prolungava per parlare della città , del sindaco, del nuovo teatro della musica, che ovviamente non gli garbava. Allora sentivi quanto forte fosse l’amore per Firenze, e quanto fosse disposto a tutto per impedire che le mettessero le mani addosso.
Si alleò con Oriana Fallaci: insieme si sarebbero dati fuoco in piazza della Signoria come Savonarola, pur di sventare il raduno dei “no global” nel 2002, che non ammettevano in una città inviolabile come questa. “Ci trovammo d’accordo come due fratelli siamesi, scatenammo un putiferio mai visto”, raccontava orgoglioso. Non successe nulla, nel senso che Firenze sopravvisse al Social Forum, però Zeffirelli non attribuଠil merito alle forze dell’ordine ma ai “comunisti di tutta la Toscana, che avevano fornito un efficacissimo servizio d’ordine”. Evitata la prima “sciagura”, ne avvertଠun’altra che aggrediva l’armonia della bellezza fiorentina: era la nuova uscita degli Uffizi. Non concepiva la pensilina di Isozaki, una sfortunata scelta: “Senza scherzi, altro non è che uno sgabellone a quattro zampe alto 36 metri”. A giudicare dal tempo che ancora ci vuole per digerirla (il progetto che vinse il concorso internazionale è del secolo scorso) forse aveva le sue buone ragioni. Certo, non poteva essere collocata senza traumi nella visione sentimentale che Zeffirelli conservava della sua città . Per lui intoccabile.
Firenze era come una mamma. Quella mamma che gli è mancata. “Quando sento che mi prende la depressione, torno a Firenze a guardare la cupola del Brunelleschi: se il genio dell’uomo è arrivato a tanto, allora anche io posso e devo provare a creare, agire, vivere”.
Era nato in via dell’Oriolo, in una situazione “irregolare”. La madre, donna bellissima, era la più brava sarta di Firenze: “Io sono nato da un relazione avuta con un uomo sposato, che non volle riconoscermi, se non dopo la morte di sua moglie”. Basta vedere “Un tè con Mussolini”, il film autobiografico del 1998, per immaginarsi la vita del giovane Zeffirelli, circondato dalle leggendarie dame inglesi che i fiorentini chiamavano “scorpioni” e che lo educarono, bisbetiche rappresentanti della colonia “anglo-becera” in quella incredibile Firenze a cavallo fra gli anni Trenta e Quaranta.
Il cordone ombelicale non si e’ mai spezzato. Almeno con la città del suo tempo, che aveva idealizzato. Il sodalizio con Filistrucchi, la storica bottega di parrucche e trucchi che lavorava per il teatro fiorentino e per il Maggio musicale fino dagli anni Quaranta, ha resistito una vita. Per il giovane Zeffirelli, allora allievo di Luchino Visconti, Filistrucchi era un approdo sicuro e fidato: fece in modo che quelle parrucche seducessero la divina Maria Callas, che le portava anche nella vita privata.
Fra Zeffirelli e Firenze c’è stato un amore passionale, a volte violento, solo parzialmente ricambiato e che meritava di più. Ha inciso in questo rapporto alterno, anche il conflitto politico con le amministrazioni di sinistra di Palazzo Vecchio. Per esempio quando nel 2006 morଠla Fallaci e per caso ci si accorse che nessuno da Palazzo Vecchio aveva mai pensato di darle il Fiorino d’oro. Allora ne fece acquistare uno, in un negozio di via della Condotta, per infilarlo nella bara di Oriana come parziale risarcimento morale. E dire – commentò amareggiato il maestro – che in passato il Fiorino lo hanno dato a cani e porci. Si ricordò che neanche lui l’aveva ricevuto: rimediò Matteo Renzi nel 2012.
Diciamo che si sentiva un po’ come Dante, allontanato dalla politica, più che dagli intrighi fiorentini. Non esiliato, ma snobbato sà¬. Distrazione rimediata all’ultimo tuffo con l’allestimento delle sue memorie nel museo a lui intitolato in piazza San Firenze. Ma anche quella destinazione non fu immediata né semplice. E queste solite difficoltà lo fecero arrabbiare come al solito (sfoghi che consegnava puntualmente al cronista e al giornale) , fino a minacciare di non farne niente, e di cedere alle lusinghe di Roma che per ospitare il Museo Zeffirelli gli offriva ponti d’oro. Furono in pochi a impegnarsi perché questo non succedesse. La sua città si è accorta della grandezza riconosciuta in tutto il mondo, quando se n’è andato. Come con la Fallaci. Sarà la Storia a rendergli giustizia. Quanto a Firenze, che dire? E’ cosଠstrana che è meglio rinunciare a capirla. AGIPRESS
di MARCELLO MANCINI